Autore: Beatrice Maiani
Quando si parla di role playing e psicodramma, si affronta indirettamente il tema del cambiamento: dettato dal recupero di una innata spontaneità e dallo sviluppo di un pensiero creativo conseguente alla sperimentazione diretta di nuovi “copioni” di risposta.
“Lo psicodramma è un modo per cambiare il mondo, qui e ora, usando le fondamentali regole dell’immaginazione” (Moreno)
Considerata la capacità di queste tecniche di produrre eventi, il loro utilizzo diviene centrale nel momento in cui è auspicabile un cambiamento e, considerato che vi è sempre gioco di ruoli ogni qual volta c’è interazione tra soggetti, il ricorso all’uno o all’altro strumento si adatta a svariate circostanze, luoghi e categorie di persone. Nello specifico, il role playing ad esempio, si dimostra particolarmente indicato al fine di sviluppare un atteggiamento empatico, rendendo il suo impiego comune ed essenziale nei settori dove le abilità relazionali fanno la differenza.
Occorre quindi tenere nella dovuta considerazione il grado di motivazione dei soggetti partecipanti e le dinamiche inerenti alla situazione mantenendo l’attenzione focalizzata su specifiche tematiche che verranno affrontate: ogni situazione problematica ha infatti diversi gradi di lettura, più cause e varie interpretazioni. E’ bene aprirsi al possibile cercando allo stesso tempo di controllare il controllabile. Questo perché l’aspetto che rende role playing e psicodramma particolarmente efficaci si traduce in potenziale destabilizzante, quindi, nel caso di mancato o scarso processo di riparazione e ricostruzione, le conseguenze si potranno dimostrare difficili da gestire e tutt’altro che positive.
Colui che guida l’azione (terapeuta o formatore) dovrebbe possedere la capacità di problematicizzare e contestualizzare adattando il proprio sapere alle particolarità, oltre che alle esigenze, della specifica situazione. Prima dell’avvio vero e proprio della messa in scena si richiede al paziente (o ad alcuni partecipanti) di assumere, per un tempo limitato, il ruolo di attore che andrà ad interagire tra se o con dei collaboratori, secondo un canovaccio precedentemente stabilito; qualora ci fossero altri partecipanti, questi andranno a formare il gruppo degli osservatori, con il compito di porre attenzione sia ai “contenuti”, ovvero a tutto ciò che emerge dalla rappresentazione, che ai “processi” quali le dinamiche che intercorrono tra individui e/ o ruoli.
Uno degli elementi caratterizzanti è l’”interazione” diretta e in tempo reale dei partecipanti e questa relazione dinamica tra i soggetti coinvolti è una delle vie privilegiate verso l’apprendimento attivo: che consente di modificare e migliorare competenze sociali e comunicative attraverso una esperienza diretta.
E’ infatti proprio nel vissuto delle esperienze che risiede il potenziale per un apprendimento attivo, quale si ritiene essere quello derivante dal recitare un role playing o uno psicodramma: essenziale è il coinvolgimento dei partecipanti per garantire lo stretto rapporto tra conoscenza ed azione. Il concetto alla base è riassumibile nel concetto di learning by doing, quell’imparare facendo che mette in risalto il valore dell’azione nell’apprendimento, dello sperimentare. Un tipo di apprendimento non è delimitato nel tempo, senza un inizio né una fine stabilita, ma piuttosto è un processo che attraversa tutta la vita secondo la prospettiva del long life learning, ovvero dell’apprendimento continuo.
Role playing e psicodramma fondano il loro valore sul ruolo centrale dell’azione, pertanto strumenti unici nello sviluppo di determinate competenze, nello specifico quelle legate al “sapere”,” saper fare” e “saper essere”. Il sapere è legato alla sfera cognitiva e racchiude tutte le conoscenze possedute dal soggetto, è quindi una competenza di tipo esclusivamente nozionistico; il saper fare invece è legato alla sfera comportamentale, di essenziale importanza al fine di acquisire le capacità per svolgere delle azioni; il saper essere infine riguarda tutta la sfera affettiva ed emotiva, vale a dire che comprende emozioni, bisogni, sentimenti, ciò che caratterizza una persona. Queste tre aree, pur essendo distinte l’una dall’altra non si possono separare completamente in quanto un atteggiamento nasce proprio dal loro incontro. Talvolta però tale incontro sfocia in uno scontro e proprio la mancanza di armonia tra questi aspetti può arrivare a generare un conflitto nel soggetto che si può superare solo attraverso una modifica di quello stesso atteggiamento magari con un uso consapevole delle tecniche attive.
Se ne deduce quindi il grande potenziale di psicodramma e role playing come agenti di cambiamento, favorito dalla “simultaneità” di tali tecniche: la capacità di fornire gli “strumenti” necessari per intraprendere una forma di apprendimento unita alla possibilità di metterlo in pratica. Nello specifico, sarebbe auspicabile applicare il role playing all’insegnamento: prendere parte attivamente facilita la memorizzazione ed il conseguente apprendimento permanente; essere coinvolti in una situazione è più piacevole e motivante di una lezione tradizionale. Questo consente inoltre la possibilità di osservare la crescita e i progressi dell’individuo.
Nel role-playing, come nello psicodramma, è implicita inoltre una notevole componente di autopersuasione in quanto è necessario che i partecipanti ricerchino attivamente, tra le proprie conoscenze, cognizioni che possano essere coerenti con la posizione presa precedentemente, al fine di facilitare la ricerca, nella memoria, di elementi tesi a legittimare il proprio comportamento. Il soggetto è sempre alla ricerca di coerenza con sé stesso e una discordanza tra vari elementi comporta una attivazione emotiva di disagio (arousal) che spinge verso la risoluzione del contrasto, questo mediante modifica dell’elemento più debole, che può consistere indifferentemente nell’atteggiamento, nell’azione o nella cognizione ambientale. In alternativa si può intraprendere la ricerca di nuove informazioni cognitive a sostegno di uno degli elementi presenti in modo tale da consentire una riduzione della dissonanza. Per il comportamento vale lo stesso meccanismo, una volta che è stato messo in atto non è più modificabile e necessariamente occorre cambiare l’atteggiamento sottostante.
Nel corso della simulazione il soggetto recita una parte insolita per lui, apparentemente senza un valido motivo; generando una sensazione di dissonanza a cui occorre porre rimedio attraverso la modifica dell’atteggiamento in direzione del comportamento adottato. I cambiamenti indotti dalla dissonanza cognitiva si sono dimostrati tra i più forti e resistenti nel tempo.
Un fattore che esercita una notevole influenza sulla dissonanza cognitiva è il “sentimento di impegno” percepito dal soggetto: quanto maggiore sarà l’impegno investito nel comportamento incoerente, tanto maggiore sarà la motivazione nel modificare l’atteggiamento sottostante. Inoltre, affinchè tale disagio venga percepito occorre che il comportamento contro-attitudinale messo in atto generi spiacevoli conseguenze di cui il soggetto si deve sentire responsabile sicuro di aver agito seguendo una libera scelta.
Secondo la “teoria dell’autopercezione” di Bem gli individui non hanno accesso diretto ai propri stati interiori e possono riconoscerli solo mediante un aiuto proveniente dall’esterno. Pertanto, si ipotizza che il proprio atteggiamento si possa inferire solamente attraverso l’osservazione del comportamento agito, seguendo lo stesso procedimento che si mette in moto nel momento in cui si intraprende una valutazione dell’altro. Da ciò deriva che l’eventuale modifica dell’atteggiamento non sarebbe la conseguenza di una pressione motivazionale, né tanto meno di una rielaborazione cognitiva cosciente ma piuttosto avrebbe luogo da un processo passivo di attribuzione del Sé.
L’elemento che consentire di distinguere gli effetti ottenuti attraverso l’uno o l’altro processo di modifica comportamentale consiste nella presenza o meno di arousal, di quella attivazione che è presente nella condizione di dissonanza ma che manca nell’autopercezione.
Entrambe le teorie citate sono valide e per alcuni aspetti complementari, in quanto entrambe prendono in considerazione l’importanza dei fattori ambientali e personali ed entrambe possono essere ritenute corrette. E’ stato infatti dimostrato che, nel caso in cui la posizione presa sia nettamente in contrasto con l’atteggiamento personale, insorge la tensione emozionale ed il cambiamento che si ottiene segue il percorso stabilito dalla teoria della dissonanza. Qualora il comportamento non fosse completamente inaccettabile è l’autopercezione a guidare il meccanismo di modifica.
Tra i primi studiosi a riconoscere il potenziale dell’esperienza ed a investigarne gli effetti c’è sicuramente Kurt Lewin. La sua ipotesi è quella di un rapporto biunivoco, o meglio circolare, tra teoria e prassi: il sapere deve nascere dalla pratica e ad essa ritornare. Una ricerca, per essere considerata tale deve trattarsi di “ricerca-azione”: non è sufficiente osservare, è necessario che lo psicologo si faccia agente di cambiamento e lo favorisca, solo in questa maniera potrà riuscire ad attribuire ad ogni effetto la sua effettiva causa. Fu dall’istituzione e dalla formalizzazione del T-Group (training group: incontri di riflessione autocentrati sul gruppo) che si comincia ad analizzare il gruppo come soggetto ed oggetto stesso dell’apprendimento e di conseguenza del cambiamento. Dopo Lewin si sono moltiplicate le ricerche pratiche, le tecniche ed i setting orientate verso un tipo di apprendimento hic et nunc, ovvero legate alla sperimentazione diretta.
Numerose sono le teorie che in seguito, ed in tempi diversi hanno apportato ulteriori contributi, determinanti alla nascita e allo sviluppo di questa tipologia di tecniche (in particolare al role playing).
Ad esempio, una tra le prime teorie a porre l’accento in modo specifico sugli effetti dei comportamenti messi in atto è quella dell”Interazionismo simbolico” (1934) nella quale Mead evidenzia, in particolare, il concetto di intenzionalità. Il presupposto alla base di tale teoria è che l’uomo si distingua dagli animali per l’infinità di significati simbolici che è in grado di apprendere e di immagazzinare vedendo sé stesso attraverso gli occhi degli altri, pertanto la reazione conseguente non è la sola risposta alle azioni dell’altro uomo ma anche alle sue intenzioni, decodificate in base ad esperienze passate che agiscono come riferimento per quelle future. Ne consegue che per poter ottenere una reazione ad uno stimolo complesso è necessario imparare ad interpretarlo attribuendogli un significato, trasformandolo quindi in un simbolo. Le parole sono simboli condivisi, di conseguenza la comunicazione diventa interazione simbolica. Da questo processo, secondo tale teoria, si riesce a distinguere un “Mondo esterno”, fatto di simboli, da una “Mente”, che rappresenta il pensiero, e da un “Sé”, che consiste nella capacità di comprendere e produrre stimoli oltre che di assumere atteggiamenti altrui. Il Sé nasce mediante l’esperienza sociale ed è composto da “Io” e “Me”; l’Io è l’aspetto creativo del Sé, unico, non codificato e non prevedibile, al contrario, il Me è un insieme di ruoli e attitudini dati dall’ambiente e dalla visione che gli altri hanno di noi; tra questi due aspetti possono nascere dei contrasti. Le azioni sono il risultato dell’interazione dei vari Me sociali con l’Io originale.
Al contrario la “prospettiva antropologica” di Linton (1936) si è interessata ai valori comuni che definiscono i ruoli, fornendo una fondamentale differenziazione tra i concetti di “status” e “ruolo”: al primo si riconosce una dimensione essenzialmente statica in quanto si limita a racchiudere tutti i diritti e doveri impliciti ad una data posizione sociale; mentre il riferimento al ruolo riguarda l’aspetto dinamico di quella stessa posizione, si assume un ruolo ogni qual volta si viene in contatto con l’altro e questo è influenzato da aspettative reciproche. Raramente status e ruolo coincidono, una distinzione tra i due aspetti favorisce una società stabile ed organizzata consentendo all’individuo di mantenere una certa libertà.
La “prospettiva antropologica” presenta delle similitudini con l'”interazionismo simbolico” nel riconoscimento dell’importanza dell’intenzionalità e delle aspettative nell’orientare il comportamento.
Parsons (1951), uno dei maggiori esponenti del “funzionalismo” afferma che il sistema sociale consiste in ciò che accomuna i vari ambiti delle scienze sociali e comprende a sua volta altri due sistemi, ovvero quello di personalità dell’attore e quello del sistema culturale. Tra tali sistemi si verificano inevitabilmente degli scambi. Ognuno si crea delle aspettative sul comportamento altrui essendo contemporaneamente oggetto di quelle degli altri. Alcuni valori del sistema sociale divengono ruoli nel momento in cui vengono istituzionalizzati. Tale sistema sociale risulta avere origine dall’interazione tra ruolo, azione e attore; si rende quindi necessario che le componenti fondamentali della cultura e dei ruoli vengano interiorizzate ed il luogo primario per la formazione di questo processo è proprio la famiglia. L’interazione è e rimane la condizione essenziale per l’analisi dei ruoli.
Tale teoria integra le precedenti ponendo in rilievo un ulteriore aspetto, fondamentale nell’interazione sociale, ovvero quello dell’interiorizzazione.
Inoltre occorre citare Goffmann (1959) che attraverso una “analisi drammaturgica” rileva che ogni individuo è potenzialmente in grado di rendere a sè favorevoli le situazioni esterne mediante un ‘approccio teatrale’. Le situazioni sociali diventano dei drammi in cui gli attori recitano con il contributo di appositi scenari allo scopo di suscitare nell’altro delle impressioni ben precise. L’individuo gestisce la sua vita quotidiana come se fosse una rappresentazione, impersona un ruolo per incontrare il consenso esterno rimanendo col tempo intrappolato nel personaggio che si è costruito. Il Self è qui inteso come una creazione artificiale che agisce in modo circoscritto per consentire all’individuo di destreggiarsi in ogni situazione nella maniera più favorevole possibile per lui.
All’interno di questa breve rassegna occorre far cenno anche alla “teoria dello scambio”, delineata da Homans nei primi anni sessanta. L’assunto di base è che agire sulla scena sociale significa relazionarsi con gli altri. Tra i soggetti coinvolti entra in gioco una dinamica che alterna dare e avere, costi e benefici, il cui fine ultimo è quello di creare e mantenere dei rapporti con gli altri che si rivelino più sereni e solidi possibile. Per far questo però spesso si è costretti ad accettare dei compromessi.
Un comportamento attuale è il prodotto degli esiti che quello stesso comportamento ha generato in passato, in un continuo rapporto di scambio ed in base a tale affermazione Homans ha delineato quattro principi cardine per questo meccanismo:
• più un comportamento è rinforzato positivamente, maggiore è la probabilità che questo si ripresenti;
• se uno stimolo è stato collegato ad un comportamento ricompensato; probabilmente quel comportamento verrà ripetuto in presenza di tale stimolo;
• la probabilità di mettere in atto un comportamento rinforzato positivamente è in rapporto diretto con la consistenza del rinforzo stesso;
• quanto più spesso è stata ottenuta una ricompensa in breve tempo, quanto meno valore verrà attribuito alle successive.
In ogni caso, il primo che veramente ha tradotto la teoria in pratica, fu Jacob Levi Moreno, che fondò a Vienna, nel 1921 il “teatro della spontaneità”: un forma d’arte in cui non si fanno mai prove, si lascia libero spazio alla creatività e all’improvvisazione, non esiste un copione predefinito e non ci sono veri attori ma soltanto spettatori a cui viene chiesto di rappresentare eventi banali accaduti nel corso della giornata. Non è ammessa la passività neppure al pubblico che diventa quindi partecipante. Fu proprio dall’analisi di questa particolare forma di rappresentazione che Moreno intuì l’aspetto terapeutico-catartico del teatro, sia per l’attore che per i partecipanti.
Questa scoperta ha contribuito, negli anni che seguirono (quando Moreno ormai era già emigrato negli Stati Uniti), al progressivo perfezionamento delle sue teorizzazioni fino a sancire la nascita del cosiddetto psicodramma moreniano, dal quale, a sua volta, un ulteriore filone di ricerche e tecniche ha portato all’ideazione del role playing.
Lo studioso scorse il valore liberatorio e catartico di rivivere drammaticamente una situazione del passato vissuta in modo problematico dal paziente, al quale, attraverso l’uso dello psicodramma, è richiesto un confronto con uno o altri soggetti che agiscono come antagonisti; successivamente sarà lo stesso protagonista a recitare il ruolo dell’antagonista. Questo perché, come attori, ci si può calare nei panni di un altro, riuscendo così ad accostarsi al suo vissuto; sperimentandone sentimenti ed emozioni risulta più facile quanto meno comprenderne il punto di vista. L’obiettivo è inoltre far emergere stati d’animo e farli rivivere attraverso la recitazione di atteggiamenti o comportamenti altrimenti passibili di essere falsati, nascosti o censurati. Considerato che la scena si svolge generalmente davanti a degli osservatori, di seguito alla rappresentazione viene intrapresa una discussione collettiva durante la quale ognuno è invitato a fornire una sua personale interpretazione di quanto ha osservato o esperito nel corso di tale simulazione.
Analogamente, il role playing mette in scena comportamenti di ruolo ma ciò nonostante può far emergere aspetti intrinseci e personali dell’individuo che però, per un suo corretto svolgimento, non andranno approfonditi in luogo ma eventualmente in separata sede. Il role playing affronta infatti contemporaneamente modi comportamentali individuali e modelli sociali, è un concetto che mette in relazione individuo e gruppo, storia personale del singolo individuo e storia culturale: agire sulla scena sociale significa necessariamente relazionarsi con gli altri. Ciò che dovrebbe essere sempre ben presente durante tutta la durata del role playing è la componente ludico del recitare una parte. I formatori devono sempre mantenere e sottolineare l’ottica del gioco, al fine di realizzare “qualcosa di significativo senza dargli in apparenza troppa importanza”.
Uno dei maggiori vantaggi del role playing proprio la possibilità di affrontare, in simulata, una situazione realistica, potenzialmente ansiogena, mantenendo la consapevolezza della finzione, con la conseguente flessibilità e apertura al possibile determinata da un contesto protetto. Allo stesso tempo, la mancanza stessa di una certa strutturalità, può essere un limite all’efficacia dello strumento, soprattutto se chi conduce non è sufficientemente esperto e preparato nella gestione di dinamiche spesso complesse ed impreviste.
Considerando che il confine tra il role playing e lo psicodramma può non apparire ben definito, visto che le due tecniche si dislocano lungo uno stesso continuum, onde evitare possibili ed inevitabili sovrapposizioni può dimostrarsi utile una distinzione più accurata tra le due tecniche, mettendole a confronto.
Alcuni autori sostengono che uno degli aspetti che contraddistingue entrambi questi strumenti, sia legata alla modalità di espressione, ovvero il teatro e la sua creatività: si ricorre alla drammatizzazione di una situazione critica in un contesto protetto per far emergere, comprendere e quindi superare le cause di eventuali problematiche del soggetto che tende a reagire nel modo più spontaneo a situazioni veritiere, manifestando aspetti di sé non pienamente consapevoli, oltre che manifestare abilità di problem solving fino a quel momento latenti. Le modalità d’impiego di tali strumenti richiedono quindi una buona dose di flessibilità affinché l’esito possa considerarsi positivo.
Un ulteriore aspetto che lega questi strumenti si può identificare con la necessaria presenza di una figura, un professionista competente che, non solo prepara, dirige ed esamina tutto il processo, ma soprattutto che agisce in qualità di “contenitore”; a cui solitamente si affiancano dei collaboratori che spesso prendono parte alla messa in scena, il più delle volte assumendo come antagonisti.
Infine, sia il role playing che lo psicodramma, ai fini di un corretto svolgimento dell’azione e di risultati efficaci necessitano di specifici accorgimenti, nonchè di una attenta progettazione, in relazione al potenziale della tecnica.
Per quanto riguarda le differenze più evidenti tra le due tecniche, la prima è individuabile negli obiettivi: lo psicodramma è agito per risolvere un conflitto psichico individuale, quindi lo scopo primario è terapeutico mentre il role-play, che prevede la messa in scena di ruoli sociali e/o organizzativi, si propone di migliorare o potenziare alcune specifiche capacità dell’individuo, in particolar modo quelle di tipo relazionale. L’obiettivo di inscenare una rappresentazione è quindi, in questo contesto, essenzialmente l’apprendimento, principalmente ma non esclusivamente a scopo formativo. Pertanto e conseguentemente, differisce l’oggetto di analisi: il destinatario del processo messo in atto che si esprime nell’individualità all’interno dello psicodramma classico e nella collettività, con tutti i suoi ruoli ed i rapporti tra essi, nella tecnica del role-play.
Ciò che differenzia i due strumenti è legato quindi alla natura del contratto stipulato con i partecipanti: nello psicodramma il soggetto è consapevole di trovarsi in un contesto finalizzato alla terapia ed intraprende volontariamente un percorso finalizzato alla guarigione, mentre considerato che nel role playing l’unico scopo è quello di acquisire conoscenze, il soggetto si sente meno coinvolto personalmente. Questo comporta, sempre ai fini di un corretto svolgimento ed interpretazione dell’intero processo, la necessità di tenere in adeguata considerazione le diverse implicazioni conseguenti agli stati d’animo così come vengono vissuti dai partecipanti.
Sempre in funzione del contratto terapeutico si affronta la discussione che segue la messa in scena, nello psicodramma generalmente si andrà a cercare le motivazioni personali di un comportamento, nel role playing, fermo restando lo scopo formativo o valutativo, ci si limita ad indagare le interazioni tra ruoli, le dinamiche sociali, ed è anzi sconsigliabile scendere nell’esame del particolare.
Differiscono quindi gli ambiti di utilizzo: principalmente legato alla formazione, in quanto tecnica in grado di favorire l’acquisizione di abilità relazionali (in particolare, all’interno di un contesto gruppale, rafforzando l’appartenenza al gruppo stesso e facilitando la collaborazione tra i partecipanti) il role playing, oltre che valido supporto per la diagnosi e la valutazione, soprattutto quando viene lasciato largo spazio all’improvvisazione dei partecipanti; orientato prevalentemente alla “terapia” lo psicodramma, che consente di portare alla luce svariati e profondi aspetti legati alla personalità, consapevoli al soggetto stesso nel momento in cui vengono agiti, verso una reale conoscenza di Sé; allo stesso modo è valutato il “processo”, caratterizzato dalle dinamiche e dalle relazioni interpersonali vissute durante la rappresentazione, simili a quelle esperite nella vita reale.
I pregi comuni alle tecniche della spontaneità si possono quindi riassumere in flessibilità, andamento dinamico, con conseguente sviluppo delle capacità immaginative e possibilità di feedback immediati sia durante che dopo la recitazione (questi agevolano il processo di modifica degli atteggiamenti e comportamenti dimostrandosi riscontro pratico di rinforzo per le risposte adattive ed inibitorie, al contempo, di quelle errate.
Proprio la flessibilità però può essere causa di problemi per i partecipanti, soprattutto per quanto riguarda la capacità di immedesimazione, non di facile accesso per tutti; se la preparazione non è stata adeguata possono insorgere nei soggetti sentimenti di disagio sul sentirsi osservati e sui giudizi altrui.
Il rischio è che tali tecniche possano quindi essere vissute come intrusive dai partecipanti pregiudicando l’attendibilità dei risultati.
In sintesi le caratteristiche delle tecniche della spontaneità che agiscono alla base di ogni processo di cambiamento sono: l’opportunità di una facile acquisizione di conoscenze abilità ed atteggiamenti attraverso la pratica; esposizione i partecipanti ad un apprendimento di concetti complessi in maniera semplice; accelera il processo di apprendimento e l’acquisizione di abilità; legame tra teoria e azione in modo pratico; possibilità di sperimentare nuovi tipi di comportamenti che si mantengono nel tempo; sviluppo di una elaborazione del pensiero, autoriflessione e autoscoperta di concetti, capacità ed atteggiamenti; modifica di stereotipi e pregiudizi precedenti attraverso l’assunzione di ruoli diversi e la ricezione di feeback immediati. quando si invitano le persone ad assumere un ruolo esse fanno proprio il comportamento del personaggio interpretato apprendendo necessariamente qualcosa sulla persona o sulla situazione. Attraverso la recitazione si può modificare atteggiamenti e comportamenti, far sperimentare nuovi modi per affrontare le situazioni e consentire di vivere esperienze emotive inaspettate; questo perchè si instaura un “ponte” tra parole ed azioni all’interno di un contesto protetto, stimolando un insight in una situazione complessa, oltre che intensificando relazioni tra individui.
Naturalmente componente indispensabile ai fini di ottenere esiti significativamente positivi è individuabile nell’interesse e nella motivazione dei partecipanti. E’ responsabilità di chi dirige trasmettere l’entusiasmo necessario e la convinzione sufficiente a consentire nei partecipanti serietà nell’assunzione del ruolo, caratterizzata da interiorizzazione del personaggio, sempre tenendo nella dovuta considerazione i diversi stili di apprendimento dei soggetti coinvolti conseguentemente ad una attenta pianificazione inerente agli specifici obiettivi da raggiungere. Più volte è stata dimostrata l’importanza di una adeguata esperienza e preparazione del direttore, in caso contrario si vanifica il potenziale dello strumento e dell’improvvisazione rischiando piuttosto di avviare una serie di dinamiche impreviste che allontanano dall’obiettivo.
Detto questo, le ricerche volte ad indagare nello specifico le capacità di role playing e psicodramma come strumento di cambiamento di atteggiamenti sono piuttosto limitate e potrebbe essere un aspetto interessante da approfondire, anche cercando di individuare le condizioni che possono agevolare o inibire tale processo, allo scopo di ricavare dati generalizzabili.
Si può concludere che, tutte le tecniche della “spontaneità” sono veri e propri “giochi di specchi” mediante i quali è possibile conosce sé stessi tramite l’altro e nell’altro, oltre ad un palcoscenico di prova per l’apprendimento di nuovi e più vantaggiosi comportamenti; l’importante è essere spinti dalla motivazione di apprendere qualcosa di sé e/o dell’altro, determinante è la voglia di mettersi “in gioco”.
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