L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (1a parte)

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“Per rendere più agevole la lettura, questo scritto è stato suddiviso in cinque parti. Auguriamo una buona lettura”

Autore: Dott. Nicola Gentile

In questa parte verranno affrontate le origini dell’approccio di comunità che hanno in qualche modo convogliato la psicoterapia da una visione individuale ad una visione di gruppo.
Perché se è vero che la psicologia sociale già studiava i gruppi , la psicoterapia, che in quegli anni corrispondeva in gran parte con la psicoanalisi, si occupava per di più di singoli individui .
In qualche senso, ricordando le iniziali esperienze di Trigant Burrow e poi l’approccio di Moreno e del suo psicodramma, che partiva dal teatro, gli unici approcci psicologici che hanno varcato la soglia del gruppo sono stati quello sistemico – relazionale, con le famiglie, e quello della gruppo analisi, soprattutto da Bion in poi.

Origini storiche della comunità.

Quella che oggi possiamo definire “comunità” in realtà è quella che Aldo Lombardo (Lombardo, 2004) chiama comunità terapeutica di seconda generazione.
Di fatto le comunità esistevano anche in epoca Egizia, ma il momento storico in cui le comunità hanno incominciato ad essere usate per la riabilitazione psichiatrica, e quindi per la cura, è il 1796 con la comunità fondata da William Tuke a York in Gran Bretagna. Questo tipo di comunità era definito “moral treatment” che come spiega Lombardo:

“Era un “trattamento attraverso le emozioni sul morale” e non un “trattamento che si appellava a standard morali”” (Ivi, p. 20)

Questo metodo faceva riferimento al metodo del prof. Pinel il quale in Francia più o meno nello stesso periodo si era portato in campagna 53 pazienti liberati dalla Prigione Salpetrier, dopo la rivoluzione francese e con lavoro manuale rigoroso e disciplinato, un atteggiamento paternalistico da medico, rafforzato anche dal suo ruolo, riuscì ad ottenere buoni risultati.

In seguito altri studiosi come Emile Durkheim in Inghilterra, e Sullivan in Usa, hanno lavorato a questo approccio. Quest’ultimo, in particolare, giungendo ad un modello terapeutico denominato poi Milieu Therapy, che si traduce come terapia d’ambiente.
Infatti, Sullivan nel 1931 pubblica uno studio su un trattamento socio psichiatrico nel quale il trattamento include anche lo staff medico e gli altri pazienti.
Lo stravolgimento di alcuni concetti, come per esempio il fatto di avere strutture con gruppi piccoli di pazienti fuori dalle grandi città, hanno portato alla nascita già dal 1890 di strutture come i manicomi, i quali rispondevano meglio alle esigenze di riempire queste strutture di più pazienti possibili, anche fino a 2000 unità, ingigantendo sempre di più strutture nate per essere piccole.

Intorno agli anni ’40 con le esperienze dell’ospedale di Mill Hill, e in contemporanea quello di Northfield si ha il passaggio dalla comunità terapeutica di prima generazione in cui la politica era legata all’assistenza, per cui i pazienti erano seguiti come in strutture ospedaliere, alla comunità terapeutica di seconda generazione in cui vi era una politica dell’autonomizzazione dei pazienti psichiatrici.

L’esperimento di Northfield.

NorthfieldL’esperimento di Northfield consiste in una sperimentazione che Bion ed i suoi collaboratori fecero nella struttura psichiatrica in cui operavano come medici militari.
L’esperimento, come lo chiama lo stesso Bion, viene descritto nelle sue dinamiche nel testo dello stesso autore in cui parla delle sue esperienze nei gruppi (Bion, 1961).
Dal lavoro sui gruppi emerge quella che è una delle osservazioni salienti dell’autore e cioè:

“Un risultato interessante dell’accresciuta familiarità con questo dilemma è la dimostrazione che non esiste la possibilità nel gruppo che un individuo possa “non far niente”, nemmeno non facendo niente. Siamo quindi di nuovo arrivati a confermare, da un diverso punto di vista, il nostro sospetto che tutti i membri di un gruppo siano, senza eccezione, responsabili del comportamento del gruppo.” (Ivi, p. 126)

Descrizione dell’esperimento si ha anche nel testo di Lombardo (Lombardo, 2004) in cui egli riferisce come questo tipo di lavoro fosse nato da un altro modo di gestire i gruppi denominato “leaderless group”, cioè gruppo senza leader.
L’aspetto interessante di questo tipo di gruppi dal mio punto di vista è che, nonostante questi gruppi venissero fatti per scegliere ufficiali dell’esercito in grado di portare a termine un compito sotto stress senza perdere contatto con la propria squadra, in realtà erano dei momenti in cui un individuo era costretto ad affrontare il proprio nemico interno.

Per far comprendere meglio quello che sto dicendo, e riportando il tutto sul piano del singolo individuo, si può far l’esempio di un “soldato” su un campo di battaglia, a cui sono morti tutti i compagni intorno, non ha alcun riferimento, ma allo stesso tempo si trova sotto un bombardamento del nemico. A questo punto cosa fa? Sceglie di proseguire avanti? Sceglie di rimanere dove è? Sceglie di scappare e tornare indietro? Quale di queste tre possibilità può salvargli la vita?
Non sappiamo quale sia la scelta giusta e potenzialmente tutte e tre le soluzioni possono essere letali o salvifiche. Quindi la scelta che il soggetto farà sarà legata solo a come è lui, a quali sono i suoi valori, le sue paure, insomma in poche parole la sua struttura di personalità.

L’obiettivo di Bion in realtà sarà quello di far sì che non sia lui a gestire le situazioni di conflitto, sia nel reparto di psichiatria che poi nelle situazioni gruppali, ma che sia il gruppo ad elaborare in modo responsabile delle soluzioni.
Su questo punto, inoltre, Bion in una nota (Bion, 1961) esprime una lamentela sul fatto che la sua tecnica di gestire i gruppi non fosse diretta erede del “gruppo senza capo” mentre derivava più dall’esperimento di Northfield che a sua volta aveva utilizzato come spunto questa tipologia di gruppi.

Tornando al precedente esempio il soggetto senza nessuno che gli dica cosa fare si trova di fronte all’assunzione di responsabilità, ed è lui che sceglie cosa e meglio per lui.
Ovviamente tutto questo lo riferisco al soggetto che è dentro un gruppo, e quindi a lui che da singolo affronta i conflitti che nascono nel gruppo e trae spunto dalle soluzioni che il gruppo trova.
Bion in verità utilizzava il gruppo nel suo insieme senza riferirsi ad un individuo in particolare. Questi argomenti, comunque verranno affrontati più avanti quando si parlerà del funzionamento terapeutico del gruppo sull’individuo.
L’aspetto interessante sulla gestione del conflitto è come Foulkes, di cui parlerò più avanti, a differenza di Bion vede la tensione come ostacolo e non come elemento naturale da far emergere per lavorarci sopra.
Giovanni Foresti e Marta Vigorelli (Foresti & Vigorelli, 2012) dal canto loro descrivono tale esperimento come una esperienza che:

“Per diverse ragioni, infatti, essa continua a essere oggetto di interesse e di studio ancora oggi e la spiegazione del successo della formula citata è probabilmente da cercare in una vicenda istituzionale che è insieme scientificamente istruttiva e politicamente imbarazzante” (Ivi, p. 23)

BionEntriamo nello specifico dell’esperimento di Northfield, così che sia più chiaro cosa fece Bion con i suoi collaboratori.
A cavallo tra dicembre del 1942 e gennaio del 1943, Bion venne messo a capo del reparto di riabilitazione con oltre 100 casi di persone in attesa del congedo per malattia psichiatrica.
Scrive Bion:

“Sotto lo stesso tetto erano riuniti tre o quattrocento uomini che nei loro reparti avevano già avuto i benefici, di noto valore terapeutico, offerti dalla disciplina militare, dall’alimentazione sana e dalla vita regolare, il che non aveva impedito loro di trovare la strada dell’ospedale psichiatrico” (Ivi, p. 18)

Al di là dell’ironia di Bion, come descrive Lombardo (Lombardo, 2004):

“Attraverso la tecnica dei leaderless group […], Bion seleziona i primi soldati disposti a combattere per quella causa e li mette a capo di una gran quantità di gruppi di attività significative per la vita militare come ginnastica, esercitazioni con le armi, letture di mappe strategiche, officina, stamperie, ecc… ma anche attività ludiche, sportive, di giochi da tavolo e di squadra e così via. Bion non rispondeva del disordine o dell’inefficienza del reparto; se qualcosa non funzionava pretendeva che fosse il gruppo stesso di quella squadra a scoprire l’origine del malessere causa del fenomeno” (Ivi, pp. 32-33)

L’approccio di comunità terapeutica, nasce sull’esigenza di rimandare i soldati colpiti da nevrosi di guerra, in trincea nel più breve tempo possibile.
Descrive Lombardo (Lombardo, 2004):

“Nei primi anni ’40 il problema del congedo per inabilità mentale era diventato serio, causando all’esercito una riduzione di ben il 30% delle sue forze. Il ministero della guerra, pertanto, sentì di fare di tutto affinché i soldati ricoverati con patologia psichiatrica sostenuta da traumi psicologici, non si accomodassero nel ruolo difensivo del malato e… che insomma, da bravi soldati per così dire, non ci “marciassero”.” (Ivi, p. 30)

Da qui l’esercito decise di fare ricorso a degli specialisti dando loro la libertà di sperimentare nuovi approcci terapeutici. E qui entra in gioco John Rickman, psichiatra della Tavistock Clinic, il quale insieme a suoi allievi tra i quali Bion, esportano le idee sui gruppi che avevano incominciato a studiare alla Tavistock.
L’idea di Rickman può essere sintetizzata come segue:

“In sostanza egli proponeva di creare, durante il periodo di trattamento riabilitativo, molteplici attività di gruppo nelle quali le competenze di ordine militaresco prendessero il posto delle attività occupazionali più tradizionali (ceramica, fare canestri, dipingere vetri, ecc.). Questo, allo scopo di non cronicizzare stati di malattia che allontanassero i soggetti dalle attività della vita quotidiana a causa della passivizzazione in parte gratificante appresa nel ruolo di malati.” (Ivi, p. 31)

Un cenno va fatto al “mandare i soldati in trincea nel più breve tempo possibile”, che effettivamente crea qualche problema etico, sull’utilizzo della psichiatria, o comunque di strumenti di questo genere per avere più “gente”, utile ad uno scopo bellico.
Nel reparto di Northfield, quindi viene data la responsabilità di organizzare dei gruppi di ogni tipo dalla lettura di mappe ecc…, a quelli più ludici.
Bion (Bion, 1961) scrive:

“A un mese dall’inizio dell’esperimento erano avvenuti molti cambiamenti. Mentre all’inizio sembrava quasi difficile trovare il modo di tenere occupati gli uomini, alla fine del mese divenne difficile trovare il tempo necessario per tutto il lavoro che volevano svolgere.” (Ivi, p. 26)

Di fatto per Bion è stato difficile trarre delle conclusioni da un esperimento durato solo sei settimane, ma i risultati che incominciava ad intravedere mostravano come il reparto fosse riuscito ad organizzarsi, respirando un atmosfera non molto diversa da quella che si poteva respirare in un altro reparto di un esercito comandato da un generale in cui si ha fiducia, ma del quale non si conoscono i piani.
Infatti aggiunge:

“L’esperimento fu interrotto da un trasferimento di truppa e così non mi è possibile fornire dei risultati clinici o statistici; ma il tentativo sembrò mostrare che è possibile per il clinico rivolgere la propria attenzione alla struttura del gruppo e alle forze che agiscono in quella struttura, senza perdere il contatto con i suoi pazienti e inoltre che, dall’uso di questo tipo di approccio può venir aumentata l’ansia sia all’interno che all’esterno del gruppo.” (Ivi, p. 31)

Il trasferimento di truppa viene spiegato da Lombardo (Lombardo, 2004) con il fatto che per il suo comportamento e per altri vari motivi, Bion non era gradito alla struttura militare, e dopo sei settimane era stato trasferito. Tutto era stato agevolato da un episodio dovuto a un ammanco di soldi dalla cassa della mensa. Foresti e Vigorelli (Foresti & Vigorelli, 2012) sottolineano invece come vi fosse stato un allontanamento degli ufficiali che durante la crisi avevano duramente litigato fra di loro, tra cui oltre alla coppia Bion/Rickman, vi fosse anche il tenente – colonnello J.D. Pearce.

Dopo questo episodio nella gestione del reparto di Northfield subentra Harold Bridger, dopo di lui arriverà Foulkes, e più tardi viene nominato come direttore clinico di tutto l’ospedale Tom Main.
Bridger, su indicazione di Rickman e dello stesso Bion continua nell’esperimento estendendo la stessa filosofia rivoluzionaria a tutto l’ospedale, dando vita al “secondo esperimento di Northfield”.
Di questa seconda fase furono indubbi protagonisti Bridger, Foulkes, e soprattutto Tom Main, i quali in questa seconda esperienza fecero un vero primo tentativo di strutturare volontariamente una Comunità terapeutica come sistema aperto e non per caso come era successo in precedenza. Bridger, incoraggiato anche dal direttore dell’ospedale stesso, Heargraves, estende i gruppi di attività a tutto l’ospedale, portando avanti i concetti intrapresi nell’esperienza precedente.
Subito dopo Bridger, arriva appunto Foulkes che inizia i primi tentativi di psicoterapia di gruppo dando il via alla Gruppo Analisi.
Come scrive Lombardo (Lombardo, 2004):

“[…] Foulkes il padre della Gruppo Analisi. Non ci potrebbe essere comunità psicoterapeutica senza l’apporto delle idee di questo psicoanalista”(Ivi, p. 42)

Nel 1945 viene nominato responsabile dell’area clinica dell’ospedale di Northfield, Tom Main, il quale oltre che lavorare per difendere l’esperimento di Northfield, ne capisce anche la ricchezza ed i limiti.
Nel 1947 Main viene nominato direttore del Cassel Hospital, in cui decide di realizzare una Comunità terapeutica psicoanaliticamente orientata, di cui parlerò nel prossimo paragrafo.
Su Main Lombardo esprime qualche perplessità pur riconoscendo il suo ruolo nel vedere una comunità come sistema. Egli scrive:

“Verso il metodo di Tom Main chi scrive nutre una certa ambivalenza. Forse perché ha coniato, o secondo malelingue copiato, il termine comunità terapeutica, che in Italia dopo la legge 180, è diventato sinonimo di alternativa al manicomio; forse perché la sua metodica insiste a far passare l’approccio di comunità per la cruna della psicoanalisi, chiudendosi, in un certo senso, agli input di altre tecniche riabilitative; o forse semplicemente perché insiste col promuovere l’uso del rapporto terapeutico uno ad uno, secondo chi scrive poco appropriato all’interno di una comunità propriamente detta; insomma, forse per tutto questo abbiamo un’ammirazione ambivalente per Main.” (Ivi, p. 41)

 Vedi anche:

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (1a parte)

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (2a parte)

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (3a parte)

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (4a parte)

– L’apporto di Bion alla Psicologia di Comunità (5a parte)

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